Il capitolo più bello delle stagioni del commissario Ricciardi: Il giorno dei morti.
Napoli, autunno 1931. Un autunno sferzato dalla pioggia. Una pioggia che non lava, ma ricopre di fango. Il commissario Luigi Alfredo Ricciardi avvia un’indagine non autorizzata sulla morte, apparentemente accidentale, di un orfano. Un’indagine che prende le mosse da un ricordo e procede a dispetto di ogni ragionevole ragione. Un’indagine che rischia di precipitarlo in un abisso di follia. Per una volta, non sarà l’ultimo pensiero della vittima a guidare i passi di Ricciardi, ma il silenzio assoluto di quel piccolo cadavere ad imporgli di inoltrarsi nuovamente nei gironi infernali delle passioni umane.
Note di regia
Il giorno dei morti é un libro spietato. Promette di portati all’inferno fin dalla prima pagina. E ti ci porta. Senza nemmeno una lusinga. Tuo malgrado. Non molla la presa, fino all’ultima riga. Devasta. Senza pietà. Tutto l’esercito dei buoni sentimenti, in rivolta sul fronte dell’ultima pagina, non riesce, però, a sconfiggere il rimpianto di essere arrivati alla fine. E non bastano, gli occhi verdi di Ricciardi, il sorriso buono di Maione, i rimbotti dolci di Rosa, la ruvida generosità del dottor Modo, né i sospiri, languidi e senza speranza, di Enrica e Livia, a sciogliere, in lacrime, quel nodo che stringe la gola.
Prendere un libro così e decidere di farne uno spettacolo teatrale è un’operazione che potrebbe avere molto a che fare con la follia. O con la sconsiderata presunzione. O con entrambe. Ma potrebbe anche avere a che fare con l’amore. Per i libri, per quel libro, per le parole che rimescolano il sangue e graffiano la coscienza. E l’amore, Ricciardi docet, è motore di ogni delitto. Nel nostro caso è stato l’amore ad uccidere prima la paura di rimettere in scena il commissario Ricciardi, poi il ritegno di smontare l’architettura perfetta del romanzo di Maurizio de Giovanni per adattarla alle esigenze teatrali, ed infine il terrore di non riuscire a restituire, su un palcoscenico, la potenza di quelle pagine.
Alla carneficina è sopravvissuto solo il desiderio di rinnovare una magia: quella della letteratura che si fa teatro. E il desiderio, talvolta, è persino più forte dell’amore.
Ci sono molti modi per mettere in scena un libro. Noi, da sempre, scegliamo quello, apparentemente, più semplice: smontarlo e ricomporlo avendo cura che la ricucitura sia così lieve da essere impercettibile. Il rispetto del testo e la teatralizzazione di parole scritte per essere lette, non recitate, rappresentano il tratto più impervio del nostro percorso. Ancora una volta abbiamo provato a procedere con il solo sostegno della scrittura scenica, consapevoli del rischio, ma determinati a non contaminare uno stile e ed un ritmo inconfondibili come quelli di de Giovanni. Abbiamo scritto con i gesti una storia minima, messa al servizio della narrazione: un filo sottile che sfila le parole dalle pagine e prova a farle muovere sul palco. Abbiamo provato a dare vita ad un libro amatissimo. Se ci siamo riusciti potrà dircelo solo il pubblico.
tratto da un romanzo di Maurizio De Giovanni
con Paolo Cresta e Ramona Tripodi
musiche Luca Troller
regia di Annamaria Russo