Non deve essere una decisione semplice quella di riscrivere Shakespeare. In AMLETO O il Gioco del Suo Teatro, Giovanni Meola (sua la regia e l’adattamento) lo fa in una modalità decisamente inconsueta. Con un cast a prevalenza femminile (Solene Bresciani, Vincenzo Coppola e Sara Missaglia) a ricoprire, in 75 minuti di spettacolo, diversi ruoli e ad “abitare” ogni angolo del palcoscenico con i loro corpi e le loro voci, la pièce si annuncia già dal primo istante come un esperimento molto ben riuscito. Aiutati solo da un microfono, una cassa e un’asta, i tre attori percorrono, letteralmente, chilometri di strada muovendosi in un turbinio di semplici passi e più articolate azioni e reazioni l’un verso l’altra in un detto/non detto – fatto/non fatto che riesce quasi subito a squarciare la proverbiale parete divisoria tra pubblico e mestieranti. Amleto, che di questo spettacolo è protagonista, regista e deus ex-machina è Claudio, Claudio diviene Orazio e ancora Amleto; e poi c’è Polonio, Geltrude, ci sono Rosencrantz e Guildenstern. Sebbene si presenti come un diesel, lo spettacolo non ci mette poi molto a entrare nel vivo e a coinvolgere appieno chi vi assiste. Tutta la classicità e la fierezza dell’opera appaiono chiare, seppur riadattate sapientemente in un mood moderno e certamente non convenzionale. Abituati al celeberrimo “Essere o non essere” si fatica ad accettare che tra sospiri, diaframma e dizione eccellente si celi la tragica ascesa verso l’ignoto del figlio del Re di Danimarca, ma tant’è. Non mancante di guizzi di comicità più o meno marcati, specialmente quando Amleto si rapporta con i teatranti che lo aiuteranno a smascherare l’assassinio di suo padre, la rappresentazione convince su tutti i fronti, restituendo a chi la guarda quel sentimento tutto teatrale della condivisione degli attimi che lì per lì si allungano quel tanto che basta a farli divenire anch’essi immortali, come quelli da cui si è partiti. In scena al Teatro Tram fino al prossimo 13 febbraio AMLETO O il Gioco del Suo Teatro è da vedere assolutamente non foss’altro che per comprendere ancora una volta che la modernità non è fine a se stessa e quando riesce a calarsi nel mito in punta di piedi, ma credendoci, ristabilisce l’ordine cosmico temporale che di generazione in generazione continua a creare bellezza e cultura e nulla ha da invidiare a chi nel mito già soggiorna da millenni.
Marianna Addesso_ iNPlatea