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Settembre 13th, 2018 by Elisabetta Baffi

 

Una “esposta” ormai cresciuta e una Madonna un po’ maldestra e pasticciona: due donne, due mamme, a loro modo; sono Telluccia e Maria, ‘a maronna cu ‘e scarpe rotte, e sono loro le protagoniste di ‘A Rota, scritta e diretta da Ramona Tripodi.

Siamo a Napoli nel giugno del 1946, il Referendum che porterà alla fine della monarchia è al conteggio definitivo e Telluccia, che abbandonata da piccola nella ruota degli esposti dell’Annunziata, come molti altri bambini, è ormai cresciuta, non ha mai abbandonato quella che ritiene la sua casa. Telluccia, due guerre vissute, ha votato per la prima volta (era la prima volta al voto per le donne) ed è speranzosa che un cambiamento ci sarà e darà alla città e all’Italia intera nuove speranze di ricostruzione. La ritorviamo intenta a cantare la ninna nanna ai bimbi più piccoli, a quelli che diverranno suoi fratelli e che porteranno il suo stesso cognome: Esposito. Telluccia non vive sola nel brefotrofio: con lei molte cape ‘e pezza, la Madonna, Sant’Anna e Gesù Cristo, con i quali intrattiene un dialogo giornaliero fatto di consigli e anche di simpatiche prese in giro (perché il napoletano, coi santi, ci scherza). La Madonna, però, le crea non pochi problemi. Essendo un po’ pazzerella, amante del bel canto e del tango, la notte se ne va in giro a consumare le scarpe, rischiando sempre di farsi riconoscere dalla gente, che più di una volta è tentata di gridare al miracolo. Anche quella notte Maria ha fatto la sua passeggiata notturna e inciampando qui e là col velo e col mantello, ha lasciato la cappella tutta sott e ‘ngoppa. Il dialogo tra le due donne, all’alba di quello che sarà un giorno importante per Napoli, è un botta e risposta divertente e mai scontato; un dialogo in cui emergono sentimenti e paure di chi in un certo senso si è voluta nascondere al mondo esterno per paura di essere nuovamente abbandonata. La figura di Telluccia ci appare dura e autoritaria, in realtà ella è fragile e spaventata e quel piroscafo che è salpato per le Americhe, non lo ha mai voluto prendere, lasciando partire Rosaria, il suo amore, da sola. I rimandi al contemporaneo, all’amore universale che dalla Chiesa “ufficiale” è ancora inviso, ma che risulta naturale nelle parole di conforto di chi ci ha insegnato ad “amare il prossimo tuo”,  sono accenti delicati, parentesi “serie” in una cornice leggera, ma che leggera non è affatto. La Madonna ha un motivo per uscire tutte le sere: va di casa in casa a sincerarsi che ogni bambino adottato stia bene e sia trattato bene! Il suo essere Madre di tutte le creature è un sentimento dolce e sentito che ben si sposa con l’essere madre di Telluccia, che madre non è, ma che si è presa a cuore la sorte di tutti gli orfanelli che hanno avuto la sfortuna di provare la mancanza di amore ancor prima di nascere. Se inseriamo tutto questo in un contesto storico particolare, un contesto in cui sanghe porta altro sanghe!, ne vien fuori una pièce ben scritta, ben interpretata e che lascia al pubblico un sorriso e una riflessione amara, come spesso accade nel Teatro, quello vero.

Il finale tragico lascia comunque una speranza: non saremo mai veramente soli; ci sarà sempre una “Mamma” che ci sosterrà e ci farà superare indenni le brutture della vita, che ci abbia partorito o meno.

Marianna Addesso_iNPlatea

 

con Marianita Carfora Ramona Tripodi

Disegno luci Sebastiano Cautiero
Disegno suono Andrea Canova
Aiuto Regia Adriana D’Agostino
Testo e Regia Ramona Tripodi

Febbraio 23rd, 2018 by Elisabetta Baffi

΄a Rota, chiude, il 19 aprile, la rassegna Visioni. Ma, appunto, come una ruota, un percorso, un cerchio si potrebbe ricominciare…

Napoli . Giugno 1946.
Forse L’Italia scriverà la Costituzione.
La città e la popolazione portano le ferite della guerra.
Tra le macerie si attende l’esito del “referndùm”, mentre la vita fiorisce anche dove non è desiderata.
Anche dove non è attesa.
È così che gli indesiderati nascono due volte.
La prima quando vengono al mondo.
La seconda quando vengono “esposti” nella ruota.
Così il giorno dell’abbandono diviene il loro compleanno, in una malinconica festa improvvisata dal rione .
Ma questo Telluccia lo sa bene.
Telluccia è il diminutivo di Annunziata .
Quel nome che ha cercato di aggiustarsi addosso.
Telluccia, che vuole dimenticare. La sua vita l’ha passata a sopravvivere. Tra bombardamenti,
macerie e promesse infrante. Due guerre nella sua vita. Dall’Annunziata lei non è mai voluta uscire.
Napoli. Giugno 1946.
Nel rione Forcella si vocifera di una storia a metà tra il miracolo e la leggenda. Le scarpe della
statua della Madonna dell’Annunziata si consumano.
Napoli. Giugno 1946.
Tra poco tutto sarà finito. Anche questa notte presto cederà il passo all’ alba, mentre la Madonna
dalle scarpe consumate calpesta frettolosa una Forcella addormentata, per far ritorno al suo altare.
Immobile come una statua prima che il sole sorga .
Prima che Telluccia si svegli.

Ramona Tripodi

΄a Rota è uno spettacolo la cui drammaturgia, nasce mescolando la leggenda della Madonna dalle scarpe rotte con la storia della Ruota degli Esposti dell’Annunziata nel cuore di Forcella, quartiere storico napoletano. È uno spettacolo sull’abbandono e sull’amore .

È una storia sugli ultimi. Sul valore della vita e sulla sua dignità. La ruota o Ròta degli Esposti era il luogo dove si abbandonavano i neonati indesiderati. Facendo girare la ruota, la parte con l’infante veniva immessa nell’interno.

Anche Telluccia è entrata così nell’Annunziata. Anche se la ruota era stata chiusa nel 1875, non aveva mai smesso di girare. Di accogliere gli indesiderati.

Lo spettacolo è ambientato nel Giugno del ’46. Al Referendùm del 02 Giugno hanno votato anche le donne e per questo a Telluccia sembra un sogno possibile che l’Italia diventi una Repubblica.

 

con Marianita Carfora e Inaua Coeli Linhart
      

drammaturgia e regia Ramona Tripodi

Dicembre 6th, 2019 by Elisabetta Baffi

Martedì 10 dicembre 2019 nell’Auditorium del Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino alle ore 20  secondo appuntamento di  Scarlatti Contemporanea, la nuova “rivoluzionaria” rassegna dedicata dalla Associazione Alessandro Scarlatti ai nuovi linguaggi musicali

La rassegna, giunta alla terza edizione,  prevede un ciclo di 2 concerti in collaborazione con il Conservatorio di Avellino.  Protagonista di questo secondo appuntamento  che segue quello con il percussionista Gianluca Saveri, è il flautista Mario Caroli.   Interprete molto amato dalla critica internazionale, che nei suoi riguardi non ha risparmiato i più alti elogi, ha inciso circa 25 cd, premiati in tutto il mondo. Ha vinto a 22 anni il Kranichsteiner Musikpreis a Darmastadt ed ha cominciato così un importante carriera solistica che lo ha portato  nelle sale più importanti del mondo, dal Concertgebouw di Amsterdam alla Philharmonie di Berlino, dal Lincoln Center di New York alla Suntory Hall di Tokyo, dal Konzerthaus di Vienna alla Royal Festival Hall di Londra, in recital o da solista con le principali orchestre di tutta Europa, Stati Uniti e Giappone.  Insegna flauto nei cicli superiori del Conservatorio di Strasburgo e tiene masterclass nelle più importanti istituzioni musicali. Il M° Caroli terrà una masterclass  nei giorni lunedì 9 e martedì 10 dicembre al Conservatorio Domenico Cimarosa.

Programma

Lunedì 9 e Martedì 10 dicembre 2019 – Avellino, Conservatorio Domenico Cimarosa

Masterclass

Martedì 10 dicembre 2019 – Avellino, Conservatorio Domenico Cimarosa – ore 20.00

Concerto

Ivan Fedele (1953)

Donax

Claude Debussy (1862-1918)

Syrinx

Maria Eugenia Luc (1958)

RED ( prima esecuzione in Italia, dedicato a Mario Caroli)

Andrè Jolivet (1905-1974)

Incantation IV: Pour une communion sereine de l’etre avec le monde

Federico Gardella (1979)

Cinque cori notturni sotto lo costa

Toshio Hosokawa (1955)

Vertical Song I

Doina Rotaru (1951)

Jyotis (dedicato a Mario Caroli)

Mario Caroli

Ha intrapreso gli studi musicali all’età di 14 anni per terminarli a soli 19 anni. Ha studiato con Annamaria Morini ed è stato profondamente influenzato dalla grande flautista Manuela Wiesler,. A 22 anni vince a Darmstadt il celebre premio internazionale Kranichsteiner ed inizia così un’intensa carriera di solista, caratterizzata da una incredibile capacità di adattamento ad ogni tipo di repertorio e sviluppata particolarmente in tutta Europa, Stati Uniti e Giappone. La sua attività inizia dapprima, sulla scia del premio vinto a Darmstadt, come difensore dei linguaggi contemporanei: la sua fama si sviluppa a grande velocità, fino a farne l’interprete di riferimento dei più grandi compositori. Salvatore Sciarrino, Gyorgy Kurtag, Doina Rotaru, Toshio Hosokawa, Ivan Fedele e moltissimi altri compongono per lui splendide pagine solistiche e concerti per flauto e orchestra, che contribuiscono considerevolmente allo sviluppo della letteratura flautistica. In seguito, la sua carriera ritorna ad abbracciare il grande repertorio classico nella sua globalità, senza distinzione di stili ed epoche storiche, facendone una figura fuori dagli schemi, unica e sorprendente per l’approccio sempre fresco e personale e per le sue letture dotate di un’incredibile virtuosismo e di una fortissima e vibrante personalità. Nei suoi riguardi, la critica internazionale si è unanimemente espressa in termini di “fenomeno” per le sue illuminanti interpretazioni di Bach, di Schubert o ancora di Debussy, e il “New York Times” ha lodato la qualità incredibile del suo suono scrivendo che se ne “vorrebbe essere imbevuti”. Presente nei più grandi festival, ha tenuto recital e concerti per flauto e orchestra alla Filaromica di Berlino e al Concertgebouw di Amsterdam, al Konzerthaus di Vienna, alla Royal Festival Hall di Londra, alla Suntory Hall di Tokyo e al Lincoln Center di New York, alla Scala di Milano e al Palais des Beaux Arts di Bruxelles, all’Herkulessaal di Monaco o ancora al Théâtre du Châtelet di Parigi. E’ stato solista con la Philharmonia Orchestra di Londra, l’Orchestra Filarmonica di Tokyo, con l’Orchestra della RAI, l’Orchestra Filamonica di Radio France, l’Orchestra Nazionale del Belgio, l’Orchestra Nazionale d’Islanda, con le orchestre delle principali Radio Radio Tedesche (SWR, WDR), l’Orchestra Filarmonica di Strasburgo, le Orchestre dei Teatri d’Opera di bari, Stoccarda, Verona, Cagliari, i Neue Vocalsolisten, Les Percussions de Strasbourg, con l’Ensemble Contrechamps di Ginevra, sotto la guida di importantissimi direttori. Ha inciso, ad oggi, circa 40 dischi, che hanno fatto incetta dei premi dalla critica. Regolarmente invitato in tutto il mondo per masterclass e seminari, ricordiamo qui la residenza “FROMM” tenuta all’Università di Harvard (Cambridge, USA) nel 2008. Artista cosmopolita e poliglotta (parla correntemente sei lingue), Mario vive in Francia, a Strasburgo, dove insegna flauto al Conservatorio superiore, ed è titolare del posto di flauto al Conservatorio Superiore di Friburgo, in Germania. Laureato in Filosofia (summa cum laude, tesi sul rapporto tra Nietzsche e il Cristianesimo), Mario suona un prezioso flauto Miyazawa in platino

Gennaio 5th, 2019 by Elisabetta Baffi

Una produzione Nuovo Teatro

 

Un teatro che non incanta quello di Winston vs Churchill in scena al teatro Nuovo fino al 3 febbraio. Peccato per Giuseppe Battiston, che ha dimostrato uno sforzo mnemonico non indifferente, portando a casa l’intero monologo, a tratti dialogo, senza nessuna sbavatura. La sua impeccabile interpretazione di Sir Winston Churchill fatta di vestaglia di velluto rossa su gessato grigio, sigaro e bastone quasi perennemente tra le mani, quasi maniacale in alcune pose, non è bastata a far emergere lo spettacolo, uno spettacolo che, nonostante alcuni guizzi pressoché geniali (a cominciare dal titolo che sottolinea la lotta interna di un uomo ormai alla fine della sua vita, ma che fa fatica ad abbandonare ciò che è stato, ciò che ha significato per il mondo intero), annoia piuttosto che regalare saggezze. Si comincia con una registrazione della voce del politico, in cui la parola predominante è “Io”: “Io ho fatto questo, io sono quest’altro” ed è giusto che sia così. Winston Churchill è stato una figura dominante nello scenario mondiale, è innegabile; nel giocare con l’infermiera Margaret, l’unica altra figura in scena che prova a star dietro alle sue manie, egli prova a farle indovinare, tramite telefonate inventate, chi siano gli interlocutori con i quali si confronta. Re Giorgio, Roosevelt e tanti altri colossi erano continuamente assieme a lui a prendere decisioni, ma anche a divertirsi e a godersi la vita, a discapito, molte volte, dei popoli che invece in quel periodo si trovavano a vivere una vita non certo serena, come accadde anche al padre di Margaret e come lei non dimentica di rinfacciare al suo datore di lavoro. Insomma: a parte qualche guizzo, l’ora e mezza trascorsa a teatro non può certo definirsi bene spesa. Una regia forse a tratti troppo “televisiva” e troppo poco “da sipario” non convince. Gli intermezzi musicali performati da Margaret dietro le tende trasparenti, accompagnati da lenti movimenti, cozzano con l’atmosfera che forse si voleva rendere. Di storia ve n’è ben poca, d’altronde era ciò che si anticipava nelle presentazioni. Ma ritengo che ci sia ben poco anche di altro. E cosa vuol significare il duale intermezzo ‘metal’, a metà e fine spettacolo, con Winston che d’improvviso alza il volume del suo apparecchio acustico, tenuto volutamente basso fino a quel momento? Egli nega forse il confronto a Margaret, ben cosciente di cosa ella pensa realmente di lui e di come ha gestito il suo potere? E solo sul finale decide di rientrare nel mondo, un mondo che oramai è cambiato e che lui stesso stenta a riconoscere? Un j’accuse a se stesso? Un senso di colpa ‘postumo’? Le parole dei suoi genitori, entrambi scontenti di un figlio, a loro dire senza nerbo, regalano forse l’unica solidarietà dovuta a una persona, un personaggio, che se ha fatto ciò che ha fatto lo ha fatto in primis per dimostrare loro di potercela fare. Ce lo rendono più umano, ma è poca cosa. Rilevante il battere del suo fedele bastone sul pavimento, a segnare le note che aprivano i comunicati di Radio Londra, ma non basta. Dispiace, perché sicuramente si poteva aspirare a qualcosa in più.

 

iNPlatea_Marianna Addesso

 

di Carlo G. Gabardini

con Giuseppe Battiston
e con Maria Roveran
regia Paola Rota

Gennaio 5th, 2019 by Elisabetta Baffi

Una produzione Nuovo Teatro

 

Un teatro che non incanta quello di Winston vs Churchill in scena al teatro Nuovo fino al 3 febbraio. Peccato per Giuseppe Battiston, che ha dimostrato uno sforzo mnemonico non indifferente, portando a casa l’intero monologo, a tratti dialogo, senza nessuna sbavatura. La sua impeccabile interpretazione di Sir Winston Churchill fatta di vestaglia di velluto rossa su gessato grigio, sigaro e bastone quasi perennemente tra le mani, quasi maniacale in alcune pose, non è bastata a far emergere lo spettacolo, uno spettacolo che, nonostante alcuni guizzi pressoché geniali (a cominciare dal titolo che sottolinea la lotta interna di un uomo ormai alla fine della sua vita, ma che fa fatica ad abbandonare ciò che è stato, ciò che ha significato per il mondo intero), annoia piuttosto che regalare saggezze. Si comincia con una registrazione della voce del politico, in cui la parola predominante è “Io”: “Io ho fatto questo, io sono quest’altro” ed è giusto che sia così. Winston Churchill è stato una figura dominante nello scenario mondiale, è innegabile; nel giocare con l’infermiera Margaret, l’unica altra figura in scena che prova a star dietro alle sue manie, egli prova a farle indovinare, tramite telefonate inventate, chi siano gli interlocutori con i quali si confronta. Re Giorgio, Roosevelt e tanti altri colossi erano continuamente assieme a lui a prendere decisioni, ma anche a divertirsi e a godersi la vita, a discapito, molte volte, dei popoli che invece in quel periodo si trovavano a vivere una vita non certo serena, come accadde anche al padre di Margaret e come lei non dimentica di rinfacciare al suo datore di lavoro. Insomma: a parte qualche guizzo, l’ora e mezza trascorsa a teatro non può certo definirsi bene spesa. Una regia forse a tratti troppo “televisiva” e troppo poco “da sipario” non convince. Gli intermezzi musicali performati da Margaret dietro le tende trasparenti, accompagnati da lenti movimenti, cozzano con l’atmosfera che forse si voleva rendere. Di storia ve n’è ben poca, d’altronde era ciò che si anticipava nelle presentazioni. Ma ritengo che ci sia ben poco anche di altro. E cosa vuol significare il duale intermezzo ‘metal’, a metà e fine spettacolo, con Winston che d’improvviso alza il volume del suo apparecchio acustico, tenuto volutamente basso fino a quel momento? Egli nega forse il confronto a Margaret, ben cosciente di cosa ella pensa realmente di lui e di come ha gestito il suo potere? E solo sul finale decide di rientrare nel mondo, un mondo che oramai è cambiato e che lui stesso stenta a riconoscere? Un j’accuse a se stesso? Un senso di colpa ‘postumo’? Le parole dei suoi genitori, entrambi scontenti di un figlio, a loro dire senza nerbo, regalano forse l’unica solidarietà dovuta a una persona, un personaggio, che se ha fatto ciò che ha fatto lo ha fatto in primis per dimostrare loro di potercela fare. Ce lo rendono più umano, ma è poca cosa. Rilevante il battere del suo fedele bastone sul pavimento, a segnare le note che aprivano i comunicati di Radio Londra, ma non basta. Dispiace, perché sicuramente si poteva aspirare a qualcosa in più.

 

iNPlatea_Marianna Addesso

 

di Carlo G. Gabardini

con Giuseppe Battiston
e con Maria Roveran
regia Paola Rota

Gennaio 5th, 2019 by Elisabetta Baffi

Una produzione Nuovo Teatro

 

Un teatro che non incanta quello di Winston vs Churchill in scena al teatro Nuovo fino al 3 febbraio. Peccato per Giuseppe Battiston, che ha dimostrato uno sforzo mnemonico non indifferente, portando a casa l’intero monologo, a tratti dialogo, senza nessuna sbavatura. La sua impeccabile interpretazione di Sir Winston Churchill fatta di vestaglia di velluto rossa su gessato grigio, sigaro e bastone quasi perennemente tra le mani, quasi maniacale in alcune pose, non è bastata a far emergere lo spettacolo, uno spettacolo che, nonostante alcuni guizzi pressoché geniali (a cominciare dal titolo che sottolinea la lotta interna di un uomo ormai alla fine della sua vita, ma che fa fatica ad abbandonare ciò che è stato, ciò che ha significato per il mondo intero), annoia piuttosto che regalare saggezze. Si comincia con una registrazione della voce del politico, in cui la parola predominante è “Io”: “Io ho fatto questo, io sono quest’altro” ed è giusto che sia così. Winston Churchill è stato una figura dominante nello scenario mondiale, è innegabile; nel giocare con l’infermiera Margaret, l’unica altra figura in scena che prova a star dietro alle sue manie, egli prova a farle indovinare, tramite telefonate inventate, chi siano gli interlocutori con i quali si confronta. Re Giorgio, Roosevelt e tanti altri colossi erano continuamente assieme a lui a prendere decisioni, ma anche a divertirsi e a godersi la vita, a discapito, molte volte, dei popoli che invece in quel periodo si trovavano a vivere una vita non certo serena, come accadde anche al padre di Margaret e come lei non dimentica di rinfacciare al suo datore di lavoro. Insomma: a parte qualche guizzo, l’ora e mezza trascorsa a teatro non può certo definirsi bene spesa. Una regia forse a tratti troppo “televisiva” e troppo poco “da sipario” non convince. Gli intermezzi musicali performati da Margaret dietro le tende trasparenti, accompagnati da lenti movimenti, cozzano con l’atmosfera che forse si voleva rendere. Di storia ve n’è ben poca, d’altronde era ciò che si anticipava nelle presentazioni. Ma ritengo che ci sia ben poco anche di altro. E cosa vuol significare il duale intermezzo ‘metal’, a metà e fine spettacolo, con Winston che d’improvviso alza il volume del suo apparecchio acustico, tenuto volutamente basso fino a quel momento? Egli nega forse il confronto a Margaret, ben cosciente di cosa ella pensa realmente di lui e di come ha gestito il suo potere? E solo sul finale decide di rientrare nel mondo, un mondo che oramai è cambiato e che lui stesso stenta a riconoscere? Un j’accuse a se stesso? Un senso di colpa ‘postumo’? Le parole dei suoi genitori, entrambi scontenti di un figlio, a loro dire senza nerbo, regalano forse l’unica solidarietà dovuta a una persona, un personaggio, che se ha fatto ciò che ha fatto lo ha fatto in primis per dimostrare loro di potercela fare. Ce lo rendono più umano, ma è poca cosa. Rilevante il battere del suo fedele bastone sul pavimento, a segnare le note che aprivano i comunicati di Radio Londra, ma non basta. Dispiace, perché sicuramente si poteva aspirare a qualcosa in più.

 

iNPlatea_Marianna Addesso

 

di Carlo G. Gabardini

con Giuseppe Battiston
e con Maria Roveran
regia Paola Rota

Agosto 15th, 2023 by Vittorio De Vito_inplatea

Il Teatro Mercadante

 

Il Teatro Mercadante nasce come Teatro del Fondo, dal nome d’una società militare (Fondo di separazione dei lucri) che, con i proventi confiscati al Disciolto Ordine dei Gesuiti, mise in opera la struttura nel 1777-’78, affidandone la progettazione al colonello siciliano Francesco Securo.
Aperto al pubblico nel 1779 con l’opera di Giovambattista Lorenzi, L’infedele fedele, musicata da Domenico Cimarosa, fu consacrato prevalentemente al genere operistico (“Opera buffa” e “Opera seria”).
Attivamente partecipe dei cambiamenti politici e culturali avviati dalla Repubblica Partenopea nel 1799, fu rinominato “Teatro Patriottico” e inaugurato con la rappresentazione dell’Aristodemo di Monti alla presenza del generale Championnet, acclamatissimo dal pubblico. Successivamente continuò ad ospitare drammi politici, tra cui quello che costò a Cimarosa la possibilità di rimanere a Napoli una volta ripristinata la monarchia.
Con la Restaurazione il Mercadante recuperò la propria vocazione operistica e – specialmente nel periodo in cui fu diretto dall’impresario Domenico Barbaja – accolse musicisti come Rossini, Bellini, Donizetti, Mozart e Verdi.
Nel 1870 il teatro cambiò nome in onore di Francesco Saverio Mercadante, musicista pugliese formatosi a Napoli, e fu oggetto di diversi restauri (al 1893 risale la facciata dell’ing. Pietro Pulli).
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento diede accoglienza alla grande prosa italiana e internazionale: Adelaide Ristori, Fanny Sadowski, Ermete Zacconi, Eleonora Duse, Sarah Bernardt e Coquelin furono gli acclamati protagonisti di quella fertile stagione, insieme con gli esponenti di punta del teatro napoletano (Antonio Petito, Eduardo Scarpetta, Roberto Bracco), amatissimi dal pubblico.
Con un occhio sempre rivolto alle novità, il Mercadante ospitò nel 1914 una discussa “Serata Futurista” organizzata da Marinetti. Qualche tempo dopo suoi prestigiosi ospiti furono Marta Abba e Luigi Pirandello.
Nel corso dei restauri effettuati tra il 1920 ed il 1938 il soffitto si arricchì d’un pregevole dipinto a tempera raffigurante Napoli marinara di Francesco Galante.
Diretto per circa un triennio da Franco Enriquez, nel 1963 il Teatro chiuse i battenti per inagibilità. Riaprì soltanto dieci anni dopo, quando – passato dal controllo demaniale a quello comunale – fu portato a termine l’ultimo restauro.
Dalla metà degli anni Ottanta vi furono allestiti mostre e diverse rappresentazioni, ma solo dal 1995 in poi il Mercadante ha dato il via a stagioni teatrali regolari ospitando spettacoli, progetti di teatro contemporaneo, videorassegne, teatro scuola, e diventando una realtà culturalmente operativa sul territorio cittadino.
Dalla stagione teatrale 2003-2004 il Mercadante è gestito dall’Associazione Teatro Stabile della città di Napoli.

Costituita il 13 settembre 2002 – per iniziativa della Regione Campania, del Comune e della Provincia di Napoli, del Comune di Pomigliano d’Arco e dell’ Istituzione Comunale per la Promozione della Cultura della Città di San Giorgio a Cremano – l’Associazione Teatro Stabile della città di Napoli aspira a collocare il Mercadante nell’area dei “Teatri Stabili ad iniziativa pubblica”.
La nascita dell’Associazione è la risposta concreta all’esigenza di dotare la città di Napoli e l’intero territorio campano di un’istituzione pubblica di produzione teatrale.

Biglietteria | informazioni generali

Tel. 081 551 33 96 – Fax 081 420 61 96

Orari: dal martedì al sabato ore 10.30 – 13.00 / 17.30 – 19.30

ORARIO DEGLI SPETTACOLI

Feriali ore 21
Festivi ore 18
Giovedi ore 17.30

ASSOCIAZIONE TEATRO STABILE DELLA CITTÀ DI NAPOLI

Piazza Municipio – 80133 Napoli

Uffici: Piazza Francese, 46 – 80133 Napoli

Tel. [+39] 081 551 03 36

Tel. [+39] 081 552 42 14

Fax [+39] 081 551 03 39

Biglietteria [+39] 081 551 33 96

info@teatrostabilenapoli.it

Febbraio 25th, 2022 by Elisabetta Baffi

Ispirata in parte all’esposizione che ne fa Plutarco in VITE PARALLELE, nell’opera di William Shakespeare l’immagine del grande Cesare, dell’infallibile condottiero, si svuota di gloria e di potenza nelle notazioni volutamente malevole dei personaggi complementari, piuttosto che nella costruzione dell’immagine del personaggio stesso, rapidamente illustrato e portato a morte nello sviluppo dell’opera già nella prima parte del terzo atto. Così che, di tutta funzionalità -al fine della congruenza della trama-risultano le circostanziate sue fragilità, citate con malcelata inimicizia dagli avversari, e protese allo svilimento della di lui figura. Nessuna citazione delle gesta militari delle conquiste e dell’ampliamento dei confini dei territori, del rafforzamento della consistenza dello Stato romano: Cesare viene descritto come un piccolo uomo, mezzo sordo, piagnucoloso, affetto dal “mal caduco”, soggetto a superstizioni di basso profilo. Il ruolo di primo piano va al tema della congiura e dei personaggi che la ordiscono, su istigazione di

 

Cassio, ma anche di Bruto arreso all’azione omicida nel nome di una presunta “libertà”, per quest’ultimo non senza un faticoso dissidio tra sentimento e ragione; accanto ai protagonisti dell’evento si aggiungono numerosi personaggi, per l’appunto i congiurati, che con rapida presenza s’affacciano al dramma, per lasciare poi nel sanguinoso epilogo i due fratelli, principali autori dell’assassinio di Cesare. Si aggiunge Porzia, in prima scena in sofferente condivisione con le sorti del marito Bruto, successivamente insofferente spettatrice dei rivolgimenti politici in Roma, quindi tragicamente portata alla morte. Ma nel complesso dell’opera – ed è questo forse il punto di maggiore interesse-si disegna e

si rappresenta con ogni conseguenza dell’evidente declino quella Roma flagellata da lotte-uccisioni-corruzione, nel corpo della classe dirigente dello Stato. Al proposito, si riportano con interesse le parole tratte dall’introduzione di Agostino Lombardo all’opera edita da Feltrinelli, che si suggerisce di leggere nella sua interezza per una molto apprezzabile illustrazione critica: “Un mondo oscuro, sfuggente, problematico e senza coerenza .. un mondo che l’uomo (e cioè l’uomo moderno) deve ormai affrontare con le proprie forze e al quale deve tentare di dare un significato senza appoggiarsi a un universo di dei… L’uomo copernicano, l’uomo della riforma.. è solo con la propria ragione e la propria coscienza e scienza: solo come Bruto di fronte al problema dell’uccisione di Cesare” (Agostino Lombardo) E nel personaggio-Bruto s’incarna, nella suggestione dell’autore, la crisi dell’Inghilterra elisabettiana percepita nel travaglio di un passaggio politico dalle conseguenze oscure. Non sembri insensato il rintracciare nel complesso intreccio dell’opera, e dei temi cui s’affida, anche le tracce degli elementi nei quali si coagulano la sofferente stagione del nostro presente e le incerte soluzioni per il tempo a venire.

D’altra parte nella storia degli uomini e delle nazioni il tema della congiura ricorre e si richiama, pure nella diversità dei casi, in ineluttabile cadenza con le medesime premesse e gli stessi epiloghi, le stesse aspettative, le stesse illusioni, le stesse morti: quale che sia il mutamento che nella sfera politica possa derivarne, il medesimo destino è solito portare a rovina gli ispiratori/autori del gesto sanguinoso, e colui che ne è vittima.

In accompagnamento allo sviluppo dell’opera shakespeariana, alcuni frammenti dal De Republica di Cicerone disegnano con preziosa testimonianza il dibattito politico-filosofico che proprio nei giorni in cui la congiura fu ordita e realizzata si presume abbia animato i circoli letterari di Roma; d’altra parte lo stesso Cicerone non dovette essere estraneo alla congiura, almeno in termini di precoce conoscenza dei fatti, tanto da pagare con la vita -forse per l’errata valutazione della potenza di Ottaviano – la sua scarsa adesione al nascente impero.

 

Galleria Toledo produzioni
Progetto LA CONGIURA/ GIULIO CESARE
da William Shakespeare
drammaturgia e regia Laura Angiulli

con Paolo Aguzzi, Giovanni Battaglia, Alessandra D’Elia, Luciano Dell’Aglio, Carlo Di Maio, Stefano Jotti, Antonio Marfella
impianto scenico Rosario Squillace
disegno luci Cesare Accetta
illuminotecnica Lucio Sabatino
assistente Martina Gallo

Febbraio 25th, 2022 by Elisabetta Baffi

Ispirata in parte all’esposizione che ne fa Plutarco in VITE PARALLELE, nell’opera di William Shakespeare l’immagine del grande Cesare, dell’infallibile condottiero, si svuota di gloria e di potenza nelle notazioni volutamente malevole dei personaggi complementari, piuttosto che nella costruzione dell’immagine del personaggio stesso, rapidamente illustrato e portato a morte nello sviluppo dell’opera già nella prima parte del terzo atto. Così che, di tutta funzionalità -al fine della congruenza della trama-risultano le circostanziate sue fragilità, citate con malcelata inimicizia dagli avversari, e protese allo svilimento della di lui figura. Nessuna citazione delle gesta militari delle conquiste e dell’ampliamento dei confini dei territori, del rafforzamento della consistenza dello Stato romano: Cesare viene descritto come un piccolo uomo, mezzo sordo, piagnucoloso, affetto dal “mal caduco”, soggetto a superstizioni di basso profilo. Il ruolo di primo piano va al tema della congiura e dei personaggi che la ordiscono, su istigazione di

 

Cassio, ma anche di Bruto arreso all’azione omicida nel nome di una presunta “libertà”, per quest’ultimo non senza un faticoso dissidio tra sentimento e ragione; accanto ai protagonisti dell’evento si aggiungono numerosi personaggi, per l’appunto i congiurati, che con rapida presenza s’affacciano al dramma, per lasciare poi nel sanguinoso epilogo i due fratelli, principali autori dell’assassinio di Cesare. Si aggiunge Porzia, in prima scena in sofferente condivisione con le sorti del marito Bruto, successivamente insofferente spettatrice dei rivolgimenti politici in Roma, quindi tragicamente portata alla morte. Ma nel complesso dell’opera – ed è questo forse il punto di maggiore interesse-si disegna e

si rappresenta con ogni conseguenza dell’evidente declino quella Roma flagellata da lotte-uccisioni-corruzione, nel corpo della classe dirigente dello Stato. Al proposito, si riportano con interesse le parole tratte dall’introduzione di Agostino Lombardo all’opera edita da Feltrinelli, che si suggerisce di leggere nella sua interezza per una molto apprezzabile illustrazione critica: “Un mondo oscuro, sfuggente, problematico e senza coerenza .. un mondo che l’uomo (e cioè l’uomo moderno) deve ormai affrontare con le proprie forze e al quale deve tentare di dare un significato senza appoggiarsi a un universo di dei… L’uomo copernicano, l’uomo della riforma.. è solo con la propria ragione e la propria coscienza e scienza: solo come Bruto di fronte al problema dell’uccisione di Cesare” (Agostino Lombardo) E nel personaggio-Bruto s’incarna, nella suggestione dell’autore, la crisi dell’Inghilterra elisabettiana percepita nel travaglio di un passaggio politico dalle conseguenze oscure. Non sembri insensato il rintracciare nel complesso intreccio dell’opera, e dei temi cui s’affida, anche le tracce degli elementi nei quali si coagulano la sofferente stagione del nostro presente e le incerte soluzioni per il tempo a venire.

D’altra parte nella storia degli uomini e delle nazioni il tema della congiura ricorre e si richiama, pure nella diversità dei casi, in ineluttabile cadenza con le medesime premesse e gli stessi epiloghi, le stesse aspettative, le stesse illusioni, le stesse morti: quale che sia il mutamento che nella sfera politica possa derivarne, il medesimo destino è solito portare a rovina gli ispiratori/autori del gesto sanguinoso, e colui che ne è vittima.

In accompagnamento allo sviluppo dell’opera shakespeariana, alcuni frammenti dal De Republica di Cicerone disegnano con preziosa testimonianza il dibattito politico-filosofico che proprio nei giorni in cui la congiura fu ordita e realizzata si presume abbia animato i circoli letterari di Roma; d’altra parte lo stesso Cicerone non dovette essere estraneo alla congiura, almeno in termini di precoce conoscenza dei fatti, tanto da pagare con la vita -forse per l’errata valutazione della potenza di Ottaviano – la sua scarsa adesione al nascente impero.

 

Galleria Toledo produzioni
Progetto LA CONGIURA/ GIULIO CESARE
da William Shakespeare
drammaturgia e regia Laura Angiulli

con Paolo Aguzzi, Giovanni Battaglia, Alessandra D’Elia, Luciano Dell’Aglio, Carlo Di Maio, Stefano Jotti, Antonio Marfella
impianto scenico Rosario Squillace
disegno luci Cesare Accetta
illuminotecnica Lucio Sabatino
assistente Martina Gallo

Febbraio 25th, 2022 by Elisabetta Baffi

Peggy Piggit, una satira feroce che mette in luce la complessità e l’intrinseca contraddittorietà dello sguardo occidentale sul continente africano, è parte della Trilogia Africana di Roland Schimmelpfenning, che ha debuttato a Toronto nel 2011.

Karen e Martin tornano a casa dopo aver trascorso sei anni lavorando nello staff di un’organizzazione come Medici senza frontiere in un paese africano non ben definito. Al loro ritorno, vengono invitati a cena dai loro vecchi amici Liz e Frank. Le due coppie si erano incontrate alla facoltà di medicina ma da lì in poi le loro vite avevano preso percorsi estremamente differenti. Mentre Karen e Martin hanno scelto di prestare assistenza medica in luoghi di estrema povertà, Liz e Frank hanno invece esercitato la loro professione inseguendo obbiettivi più tradizionali: la carriera, il guadagno, la costruzione di una famiglia. A legarli in questa lunga distanza, la presenza di una bambina, Annie, che Liz e Frank hanno adottato a distanza, e di cui Martin e Karen si sono presi cura durante la loro permanenza in Africa.

Durante la cena, l’alcool inizia a scorrere e fa emergere incomprensioni e gelosie reciproche tra le due coppie. Protagoniste inerti dell’azione diventano inaspettatamente due bambole. La prima, Peggy Pickit (che dà nome all’opera), è un costoso giocattolo di fabbricazione occidentale destinato da Liz e Frank ad Annie, l’altra è una semplice bambola artigianale di legno, portata in dono dall’Africa da Karen e Martin per Katie, la figlia biologica dei loro amici.

Le due bambole diventano il simbolo dell’enorme divario tra il capitalismo avanzato del mondo occidentale e la povertà dei paesi in via di sviluppo. Un divario incolmabile sottolineato anche dal racconto che Liz fa di una lettera che Katie ha scritto per Annie, tentativo, forse impossibile, di gettare un ponte tra due realtà troppo lontane. Attraverso i toni a volte ironici, a volte dolorosi di questa commedia amara, il conflitto che anima azioni e relazioni in scena diventa dunque metafora di un’inquietudine esistenziale tipica del contemporaneo.

 

Di Roland Schimmelpfennig

traduzione di Marcello Cotugno e Suzanne Kubersky

regia, colonna sonora e luci Marcello Cotugno

con Valentina Acca, Valentina Curatoli, Aldo Ottobrino ed Emanuele Valenti

scene Sara Palmieri

costumi Ilaria Barbato

produzione Teatri Associati di Napoli con il sostegno del Goethe Institute Napoli