“Epurato” dal significato prettamente religioso, va in scena al Teatro Nuovo un Cantico dei cantici 2.0. Ce lo presenta un DJ stanco, annoiato, l’ombra di quello che probabilmente fu: vestito “da straccione” e con gli occhi pesti da un pesante trucco colato giù a cerchiare lo sguardo perso e malinconico. Questo personaggio che ricorda, nelle movenze e nei tratti, un po’ la rock star in declino di Sorrentino e un po’ lo “zingaro” del Mainetti, ci accoglie dormiente, disteso su una panchina basculante e reca in seno lo strumento principale del suo lavoro: un paio di cuffie. Da quelle cuffie s’ode musica in lontananza, la stessa musica che, una volta indossate quelle cuffie, riusciamo a sentire forte e chiara, come se le stessimo indossando anche noi. E’ questo il primo e significativo collegamento tra attore e pubblico, che ci accompagnerà per tutta la durata del monologo. Roberto Latini ci fa entrare nel suo mondo di tenebra in questo modo e non ci lascerà più andare via, trascinandoci in un vortice di parole e suoni, di movimenti e sospiri, che determineranno la sintesi massima di un dualismo tonale perfettamente stabilito, cadenzato da un ON AIR/OFF AIR che vuol essere un IN&OUT della coscienza e dello struggimento amoroso di due amanti felici nel ritrovarsi e distrutti nel perdersi. La resa moderna di un classico senza tempo: scelte musicali che spaziano dal punk rock dei Placebo ai remix ‘sincleriani’ New Millennium di Raffaella Carrà, parole che riempiono lo spazio e vi si accostano con rabbia e timore, con dolcezza e fermezza, con gioia e dolore. E, di quando in quando, una cornetta alzata e riposta; all’altro capo il nulla, il silenzio, il vuoto esistenziale che pesa come un macigno sulla mano stanca che la ripone, quella cornetta, non traendone risposta, ma solo altro dolore e lontananza. Unica compagna in scena del nostro DJ – nottola, una testa femminile ‘parruccata’ punk, con un fiore bianco che spunta dalle labbra; quel fiore lascerà ben presto il posto a una sigaretta e verrà portato in danza ferendo tutto il proscenio in un turbinio di giravolte. E d’improvviso una voce femminile che esclama “Vieni qui e siediti!” La voce liberata di una compagna invisibile, che incorporea agisce solo con il suono delle parole e ferisce e definisce l’uomo stanco che abbigliato “da teppista”, non potrebbe mai essere << Il mio diletto, che peccato >>.
<<Guardami, non guardarmi!>>
<<Ecco, è lui! >>
<< Eccomi! >>
Si ritrovano e si perdono ancora e ancora, legati da un filo invisibile che li ha resi amanti e distanti: si cercano senza trovarsi, si trovano senza riconoscersi. E, ripetuto in loop: << Che peccato! >> Il peccato, quello originale che si perpetua nel tempo, ma che viene lavato via da una goccia d’acqua e quello veniale che sebbene meno grave, risulta avere più tormentata redenzione, perché si sa: quando di mezzo c’è l’Amore, quello vero e totalizzante, tutto il resto scema verso l’abisso e per redimersi serve distruggere tutto, urlare, strapparsi i capelli, toccare il fondo.
Che peccato… che peccato… che peccato.
iNPlatea_Marianna Addesso